VINCENZO
ROMANELLI

 

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Questa mostra dei cento anni non vuol essere commemorativa di un artista che non c’è più.
Vuol essere anzi un inno alla vita e alla voglia di vivere di un uomo che, anche in tarda età, ha continuato a fare progetti, ad imparare, ad innovarsi. Da adulto ha scoperto una nuova vitalità, un entusiasmo, una spinta propulsiva che, in ultimo, aveva come obiettivo la mostra dei cento anni.
«Se io non ci sarò, dovete organizzarla voi!», ci diceva. E così è stato.

Ripeteva spesso che la sua vita era stata piuttosto travagliata e che solo col passare degli anni aveva trovato la serenità che gli era mancata in gioventù.
Raccontava della guerra, di quando, l’8 settembre del ’43, in seguito all’Armistizio, a lui e agli altri allievi ufficiali dell’Accademia Militare di Modena fu comunicato di sotterrare le armi e disperdersi. Della scelta salire in Val Camonica per unirsi ai gruppi partigiani, degli inverni trascorsi al freddo, rifugiati in un fienile dal quale uscivano solo poche ore di notte, per evitare i rastrellamenti. Ricordo, a tratti, il suo racconto di quello che accadde fino al giorno della Liberazione, il 25 aprile 1945, che definiva, “il mio secondo compleanno”. Dopo i festeggiamenti con la piccola comunità che gli aveva dato rifugio, il ritorno in Puglia, per riabbracciare la famiglia di cui non aveva più notizie. Un viaggio attraverso un’Italia devastata e frammentata, affrontato con mezzi di fortuna; in bicicletta, nel retro di un camion sul tetto di un treno, nel tratto in cui la ferrovia comincia a costeggiare l’Adriatico. Un bagno in mare nella spiaggia deserta e poi in cammino fino a casa. La vita ricomincia nel dopoguerra con il rientro a Brescia per assumere la guida dell’attività di famiglia. Il boom economico in un nord Italia che si rimbocca le maniche e reagisce.
Ma la Puglia non si dimentica, è il luogo delle vacanze estive nella grande casa al mare. Durante una di quelle estati conosce Etta in spiaggia, fresca di maturità classica con l’idea di iscriversi a Giurisprudenza e diventare avvocato. «Vediamo se riesco a farti cambiare idea…» le dice scherzando, ma non troppo. E infatti ci riesce. Si sposano nel settembre del 1954 e vivranno a Brescia fino alla fine degli anni ’60 per rientrare poi definitivamente a Trani, da dove i genitori erano partiti. La passione per la pittura, che coltiva quasi da autodidatta, è l’elemento fondante ma discontinuo della seconda parte della sua vita. La sua capacità di esprimere emozioni senza parlare. La sua esistenza è caratterizzata da una malinconia di fondo mescolata al gusto del bel vivere, alla passione per i viaggi e pochi ma sinceri amici di tutta una vita.
Il piacere di stare all’aria aperta, le lunghe camminate sul mare, la sua amata “campagna”: ogni scorcio, ogni paesaggio, la natura che cambia col passare delle stagioni, tutto può diventare un quadro.
Le ore passate a dipingere nello studio, in cui aleggia l’odore pungente degli stracci intrisi di acquaragia. Le pile di libri e riviste di arte, di turismo e di cucina. Un alternarsi di lunghi silenzi riflessivi e allegre tavolate nelle quali faceva da anfitrione.
Il passaggio di secolo e di millennio vissuto con curiosità e spirito critico, mettendosi in discussione rispetto ai temi culturali e scientifici, un po’ meno rispetto all’evoluzione del “costume”. L’interesse per l’arte e i suoi mutamenti. I nuovi mezzi digitali con cui cattura immagini, colori, suggestioni.
Quando le mani nodose di “vecchio” stanno perdendo la sensibilità per disegnare e dipingere, comincia a modellare, incurvare, attorcigliare fil di ferro (preferibilmente di recupero) per dare vita a figure stilizzate. Con una tecnica tutta personale genera forme che sono comunque riconoscibili come sue, come se le avesse disegnate. E poi ancora, con il legno degli ulivi di Puglia tagliato lungo vena, sperimenta composizioni che raccontano la natura senza disegnarla, quasi a compimento del suo personale percorso artistico.

Nostro padre era caratterialmente schivo, combattuto tra la passione per la pittura e l’imbarazzo dell’esporre e dell’esporsi, e la sua arte avrebbe anche potuto tenersela per sé, se non ci fosse stata nostra madre a spronarlo e sostenerlo. Etta e Vincenzo erano così, opposti e complementari. E questa mostra è dedicata a loro.
 





Vincenzo Romanelli

Il paesaggio come teatro dell’anima
 
Mauro Corradini

“La bellezza, quando appare, è come il “Sole d’inverno” [olio su compensato, 2000], dove il rosso ha il sapore della ferita, e la natura non sembra risvegliarsi nonostante il bagliore che proviene dall’alto”. Sono le ultime parole con cui chiudevo la presentazione in catalogo, per la mostra organizzata nello spazio dell’Associazione Artisti Bresciani della nostra città (settembre 2001): Vincenzo Romanelli festeggiava il suo 80^ compleanno.
Vent’anni dopo, in un contesto non dissimile, con questo nuovo testo (catalogo del centenario), voglio ricordare la sua figura, umana e artistica, partendo da quella riflessione, che sintetizza il suo straordinario percorso. Alcune annotazioni ci aiutano a definire in forma sintetica una storia particolare: la storia di un giovane avviato al commercio e al lavoro imprenditoriale, ma da subito attratto dalla pittura; la storia di un bresciano di origini pugliesi – e Trani è stata a lungo, non solo il luogo delle origini, ma anche un luogo reale di vita. La biografia testimonia come Romanelli si sia mosso in un difficile equilibrio tra i tempi e le necessità dell’economia e quelli della ricerca poetica. Ha dovuto misurare il suo desiderio di esprimersi con i segni e i colori giungendo alla pittura da autodidatta. Ha la fortuna di poter frequentare a Brescia la scuola d’Arte dell’Associazione, quando i docenti che la guidavano sono Lusetti e Vicentini, due artisti bresciani di sicuro valore. Sono stati attenti interpreti e utili maestri nei confronti di un allievo che si sentiva (aveva 40 anni) “troppo vecchio” per poter ancora apprendere. Eppure, … con gli apprendimenti faticosamente “rubati” alla quotidianità della vita, Vincenzo diventa pittore; e la sua sensibilità si declina con la passione e con gli apprendimenti acquisiti fuori dai percorsi accademici. In questa costante evoluzione, la cultura personale si propone attraverso un mondo poetico che esprime le tensioni emotive di una mente lucida. Nel suo sole d’inverno è la pittura ad illuminare il sentiero della vita; bisogna essere testardi e volonterosi, volerlo ad ogni costo, anche, a volte, contro le circostanze della storia: la pittura con le sue tensioni e la vita con la sua passione, lo aiutano a leggere il mondo, fino a ritrovare tra gli alberi spogli un sentiero, non lineare e tuttavia accompagnato dall’ultimo sole e diventato percorribile.
Alla fine, per Vincenzo, dipingere, pittare, era vivere.

Vincenzo entra nel mondo artistico negli anni del secondo dopoguerra; a monte, per lui come per tutti, le distruzioni di una guerra insensata (ma ce ne sono di “sensate”?); rotture e fratture che costituiscono, nonostante tutto, uno stimolo a rispondere comunque positivamente alle sollecitazioni culturali che vengono da più parti. La città “ha voglia” di ricominciare, e ce lo dice anche la rapidità con cui nasce l’Associazione stessa, ce lo dice la sua intelligente scelta di realizzare una scuola d’arte, per tutti quelli che sentono il bisogno di narrare la propria visione del mondo: troppe le tensioni tenute dentro nel lungo buio dei tempi della guerra.
Vincenzo cerca e trova per sé il suo spazio. Come a volte accade, ha anche un po’ di fortuna, nel fermento di quel primo decennio: nel 1958, alla prima esposizione, incontra Lorenzo Favero, una figura singolare di letterato e pittore; un intelligente intellettuale che dipinge e scrive. Diventa il mentore per quel giovane uomo pugliese, che, nato a Brescia, ha mantenuto i contatti con la sua terra. Favero legge e interpreta la sua tensione espressiva, incurante dei materiali: Vincenzo disegna, dipinge, utilizza l’inchiostro, la grafite, i pastelli, l’olio, preferibilmente l’acquerello, … Si muove in un universo iconografico ampio come la realtà che cresce attorno a lui, ma si è (quasi) affermato in quella mostra con i disegni di carrozzelle: un tema inusuale. Favero è la persona giusta con cui Vincenzo parla, discute, mette a nudo l’animo, utilizzando, per parlare del mondo, quelli che Favero definisce i suoi “saporosi appunti”. Gli anni cinquanta sono ormai alle spalle; la grande diatriba, discussione, tra astrazione e figurazione, si è venuta attenuando. Se è pur vero che negli anni cinquanta tutti i giovani sono o si sentono astrattisti, affermazione tanto vera quanto opinabile, è altrettanto vero che dietro la superficie di un contrasto formale e sostanziale aggallano e si affermano nuovi percorsi, nuove tendenze: alcuni (grandi) autori vengono recuperati, al di là dello stigma politico (pensiamo all’importante antologica di Sironi), alcuni “grandi giovani” emergono, portando in campo un segno nuovo, difficilmente coniugabile con la cultura narrativa precedente e difficilmente archiviabile nel percorso astratto (pensiamo all’importante mostra dedicata a Franco Francese): Brescia è viva, attenta; uno stimolo e un instancabile pungolo. Brescia è il luogo giusto in quel periodo; ha un’effervescenza da grande città e offre un dialogo quasi quotidiano, da piccolo borgo, tra i partecipanti alla riflessione sull’arte.
E nonostante un percorso non lineare, fatto di accelerazioni e silenzi e pause, Vincenzo emerge e si offre con la mano “felice” che sa portarlo dove vuole e lo aiuta a trascrivere un mondo che lentamente viene prendendo forma. Nella pittura che si affina, la sua mano si fa più libera; emergono modalità espressive che hanno il senso di una “nuova figurazione”, tra un realismo, a volte un po’ retorico, e un astrattismo mentale; la sua pittura cresce sempre più chiaramente verso un mondo interiore che si alimenta con la presenza diffusa di nuove iconografie.
Emerge il distacco dalle diatribe che hanno attraversato due decenni; la sua figurazione guarda la realtà anche urbana e tende al paesaggio, che appare come il luogo in cui conciliare diverse tensioni emotive e culturali. Il suo mondo emerge tra le pieghe della quotidianità, in cui aggallano paesaggi e figure, tra la visione e il sogno; vengono a noi i luoghi conosciuti e amati attraverso immagini che possono conciliare realtà e memoria, sguardo diretto e bisogno di comprendere attraverso la propria sensibilità. Anche quando si muove attorno ai paesaggi bretoni, che sicuramente ha amato, l’immagine trascritta rimane un riferimento privato, che non vuole nascondere e nemmeno enfatizzare: dietro il lembo di terra che scivola verso il mare non è difficile immaginare un lontano – nella memoria e nella realtà – diverso lembo di terra pugliese che scende verso le più solari onde del Mediterraneo. Realtà e immaginazione, realtà e memoria, in una sintesi ben evidenziata da Elvira quando parla di “un realismo spoglio, dimesso, essenziale, un senso di terra nuda e vera, di terra madre espresso senza orpelli o forzature, con poche immagini elementari e di taglio non convenzionale” (1967, Elvira Cassa Salvi, recensione, per una mostra all’AAB).

Già all’inizio del secolo scorso – che è il secolo di Romanelli (e anche di chi scrive) -, un grande poeta, Rainer Maria Rilke, attento alla cultura visiva che si veniva evolvendo all’inizio del Novecento, aveva sottolineato che negli studi critici del tempo mancava una riflessione (un testo) dedicata al paesaggio. Alle spalle la grande pagina del realismo, del realismo impressionista, e le nuove tendenze tra fine Ottocento e inizi Novecento, che stavano modificando radicalmente il fare dell’arte, dal puntinismo, ai Nabis, dalle Secessioni (Jugendstil e dintorni) fino all’Espressionismo, che apre l’arte alle avanguardie storiche. Non possiamo non sottolineare che l’assenza sottolineata da Rilke all’inizio del Novecento (“una storia della pittura di paesaggio non è stata ancora scritta e tuttavia è uno di quei libri che si attendono da anni”), non toglie nulla alle altre importanti aperture: in poesia, come non ricordare La terra desolata di Eliot, 1922, cui guarda il nostro grande Montale? Crediamo che il richiamo di Rilke evidenzi le difficoltà specifiche della pittura: per parlare di paesaggio, il pittore dovrebbe essere fornito di strutture formali innovative. I pittori, sottolinea il poeta, sono facilitati nella descrizione delle figure (umane), ma sono meno pronti nei confronti del paesaggio “per questa sua grandiosità, per la incommensurabilità delle linee”. Dipingere “i tesori di questa terra, per la loro precarietà, che è poi la nostra”, dipingere il paesaggio, per Rilke rappresenta uno sforzo maggiore, necessario, e costituisce la prova della nostra capacità di “avvicinarci a queste cose e a queste forme con la più intima comprensione”. La pittura di Romanelli si muove dai “racconti delle carrozzelle” al paesaggio vero e proprio, attraverso un’ampia riflessione. Se dipingere è vivere, Vincenzo vuole misurarsi con la realtà in tutti i suoi andamenti; la pittura non poteva sottrarsi alle suggestioni e alle difficoltà di cui parla Rilke.
È una evoluzione lenta e costante. Romanelli ha in mano gli strumenti del dire; ha utilizzato il disegno, l’acquarello, l’olio e il pastello per inseguire i tratti e le linee che danno un senso alla sua pittura. Il paesaggio diviene il suo tema privilegiato; un paesaggio ad un tempo complesso e semplice: essenziale.
È la stagione del mare bretone che Vincenzo conosce, insegue, ama. Il suo disegno [n. 7], parte con la definizione delle forme dominanti. Utilizza la facilità/felicità della mano che con la penna delinea le cose: riconosciamo i sassi, le linee ondulate della costa, i grandi blocchi che il tempo ha collocato come in un teatro dell’animo, posandoli nello spazio. È, all’inizio, il narratore che descrive; ma avverte che la pittura deve dare di più. Ecco allora la forma della costa che si affaccia e rapidamente scende verso il mare; ecco la terra emergere con il verde e il marrone, quasi a sottolineare i due volti del paesaggio, innalzandosi fino alle increspature del cielo. L’incanto e la grandiosità hanno il sopravvento; non è solo interessato a descrivere; accetta la sfida dello stupore, disegna per ritrovare dentro di sé la “meraviglia” dei luoghi. L’immagine parla all’animo attraverso la forza e l’equilibrio delle forme. E i paesaggi ci appaiono come esito lento, una interiorizzazione dello sguardo che si commisura sulla realtà non soltanto per descriverla, ma soprattutto per dare forza espressiva all’iconografia. Il pittore si innamora e ci fa innamorare, spesso ritornando sulle medesime forme, che sembrano racchiudere la bellezza dell’eternità. In Romanelli emerge il meraviglioso, la ricerca di strutture compatte che traducano sia la verità dei luoghi, che la forza della pittura: che è ritmo, fuga di linee e, per contrasto, il conglomerarsi di forme compatte che si intersecano alle prime. Non so se questa sia quell’intima comprensione di cui parla Rilke; una ricerca che non puntava alla mimesi, ma a quella dimensione dell’animo, che a volte accade, quando l’artista sa realizzare lo splendore delle forme e l’intreccio dei colori in dialogo tra di loro per creare un’immagine, un po’ lontana dalla realtà, ma emotivamente e concettualmente vera. Non un prelievo, ma la sua essenza, che traduce la grandiosità e incommensurabilità del visibile.

Il paesaggio è il luogo reale e simbolico della sua visione del mondo. La vita tuttavia scorre oltre il paesaggio. Il pittore ha avvertito con grande sensibilità una realtà “altra”, diversa, che rimanda alla solitudine, alla sofferenza anche, alla sconfitta dell’uomo. Una mostra che lo volesse rappresentare compiutamente, con grafie e tele, dovrebbe essere costruita non solo dalle pagine paesaggistiche che danno il senso di una tensione formale, prima ancora che poetica; si dovrebbe riempire l’intero spazio espositivo con tutti i piccoli e piccolissimi appunti con cui il pittore guardava gli uomini e le cose. Sono piccole pagine disegnate, bozzetti, appunti veloci, inchiostri e acquerelli: un mondo iconografico che Vincenzo racchiude in un unico titolo: “Senza domani”; raramente questi appunti divengono opere ad olio o grandi pastelli. Alle spalle una solida cultura che la storia ha definito attraverso il termine di “realismo sociale”; con questo diario intimo il pittore testimonia che non ha voluto restare fuori dal mondo, ma ha voluto misurarsi con la quotidianità del dolore, consegnandoci, senza enfasi, una realtà che non possiamo dimenticare: l’immagine di un mondo appartato, minore, ma ben vivo.

Estate 2022

 
 

   
 

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